Cosa vi serve sapere: T’Challa ha rinunciato al ruolo di re del Wakanda e si è recato a New York dove ha assunto l’identità di Thomas Chalmers, assistente sociale a Harlem. Contemporaneamente porta avanti un’attività di vigilante urbano con il nome di Leopardo Nero ed a lui si è affiancata la bella Okoye, una delle Dora Milaje, le donne guerriere che costituiscono la guardia personale del sovrano.

Insieme hanno dichiarato guerra ad un organizzazione che sfrutta la forzata di giovani donne perlopiù provenienti dall’Europa dell’Est, dall’Africa e dall’Asia.

Nel frattempo l’ex fidanzata di T’Challa, Monica Lynne, sta tentando di rifarsi una vita come cantante in un locale di Harlem che però è di proprietà dello spietato gangster Morgan.

In Wakanda la sfida per decidere chi sarà la nuova Pantera Nera è quasi giunta al termine ma qualcuno complotta nell’ombra e la situazione geopolitica della zona sta per diventare incandescente

 

 

 

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Di Carlo Monni & Carmelo Mobilia

(da un’idea di Fabio Chiocchia)

 

Capitolo 12

 

JUNGLE

 

 

Manhattan, New York City.

 

Quando Thomas Chalmers entrò nel Centro per Donne Maltrattate Maria Stark non fu sorpreso di trovarci Jody Casper, ormai aveva capito quanto fosse coscienzioso quel giovanotto; quel che veramente lo sorprese fu che ci fosse anche Okoye. Con indosso una semplice camicetta, jeans, con i capelli tirati su e raccolti a formare una crocchia non assomigliava davvero alla spietata arciera in abitino aderente della sera precedente. Per fortuna non aveva messo gli occhiali.

<Salve Tom.> lo salutò Jody <Sono lieto di vederti qui.>

<Volevo rendermi conto personalmente della situazione.> spiegò Chalmers.

<Beh, la situazione è decisamente seria: una ventina di donne, quasi tutte minorenni, parecchie davvero molto giovani, costrette a prostituirsi.>

<E tutte sono state violentate e picchiate ripetutamente.> intervenne Okoye.

<Scusa Tom…> disse, contrito, Jody <Lei è Dora Milton, lavora qui.>

Dora Milton? Decisamente Okoye aveva meno fantasia di lui nello scegliersi un nome falso.

<Sono felice di conoscerla Miss Milton.>

Chalmers le porse la mano e dopo un attimo di esitazione lei la strinse.

<Anche per me è un piacere m… Mr. Chalmers.>

Stabilito che avrebbero fatto finta di non conoscersi per salvaguardare le rispettive identità segrete, un pensiero che lo fece sorridere, lui proseguì con le domande:

<Adesso che ne è di quelle donne?>

<La Polizia e l’F.B.I. le stanno interrogando con l’assistenza di alcuni psicologi ma non è una cosa facile.> rispose Jody <Parecchie vengono dall’Europa dell’Est o da più lontano, Asia e Africa, ed è stato necessario trovare degli interpreti. Ho provato a parlare con loro ma ripensandoci, è stato un errore. Erano diffidenti solo perché sono un uomo, temo. Sono traumatizzate e scattano al minimo rumore.>

<Hanno ancora paura. Pensano di non essere davvero al sicuro e forse non hanno torto.>

<Pensi veramente che oserebbero attaccare questo posto per riprendersi quelle donne?>

Fu Okoye, anzi Dora Milton a rispondere:

<Sono belve e conoscono solo la violenza. Pensano che quelle donne siano di loro proprietà e possano farne quello che vogliono.>

<Credo che lei abbia ragione Miss.>-

A parlare era stata una donna alta dai capelli castani ramati che indossava un tailleur verde. Sul risvolto della cui giacca era appuntato un distintivo dorato da detective, gli occhi erano nascosti da grandi occhiali a specchio. Con lei c’era un detective che Thomas Chalmers conosceva bene in quella che ormai considerava un’altra vita: il Sergente Francis Tork del 28° Distretto che gli rivolse uno sguardo perplesso.

<Tenente Molly von Richthofen, Divisione Buoncostume.> si presentò la donna <Il caso è mio adesso.>

Impossibile capire se Tork fosse contento oppure no che la squadra dei detective del suo Distretto fosse stata sollevata da indagini che coinvolgevano la sua zona a Harlem, la sua faccia era decisamente di pietra.

<Von Richthofen?> esclamò Jody <Il suo nome non mi è nuovo.>

La donna fece una smorfia strana e replicò:

<Avrà sentito nominare il mio omonimo, il Barone Rosso[1], sì, proprio quello di Snoopy, e no, non so se siamo parenti.> tagliò corto lei.

Ci fu un breve giro di presentazioni poi la Detective riprese la parola:

<Torniamo a cose veramente serie, signori e bella signorina. Stiamo indagando su quest’organizzazione da tempo e da quel che abbiamo capito, se scoprissero dove sono le ragazze, potrebbero perfino provare a riprendersele anche a costo di fare una carneficina.>

<Ma è assurdo!> esclamò ancora Jody.

<Non per loro. Ieri, grazie a quel nuovo tipo, il Leopardo Nero, abbiamo messo le mani su uno dei capi: Cristu Bulat.>

<Sembra un nome rumeno.> commentò Thomas Chalmers.

<Complimenti, lo è. Cristu è un tipo da prendere con le molle ed ha un passato da mercenario. Quello veramente pericoloso in famiglia, però è suo padre Tiberiu. Da giovane era nella Securitate[2] di Ceausescu. Al crollo del regime fuggì in Bosnia e si mise alla testa di una banda di mercenari che si rese colpevole di crimini atroci, è ricercato dal Tribunale Penale Internazionale. Se fosse qui come suo figlio, sarebbe capace di prendere d’assalto il carcere per liberarlo.>

“Il vecchio che era alla villa… se solo avessi saputo” pensò Chalmers, ma era inutile piangere sul latte versato.

<Sapete un sacco di cose.> disse infine <Eppure quella gente è ancora libera di condurre i suoi sporchi traffici.>

<Sapere le cose e poterle provare in Tribunale sono due cose diverse, Mr. Chalmers ma io non mollo. Ora abbiamo Cristu Bulat e intendo tenermelo stretto più che posso ed usarlo per arrivare a suo padre.>

<Le auguro buona fortuna, Tenente.> le disse ancora Chalmers.

<La fortuna uno se la fa da sé.> replicò lei.

Era appena uscita assieme a Tork che Jody Casper disse:

<Ora mi ricordo dove ho sentito parlare di Molly von Richthofen e non c’entra un aviatore tedesco morto un secolo fa. Lei era un Sergente in forza alla Squadra Omicidi di Manhattan Nord. Aveva appena risolto un caso importante ed era stata convocata al Quartier Generale della Polizia per una conferenza stampa. Il Commissario di allora ne approfittò per farle delle avances piuttosto pesanti e lei gli sferrò un calcio nelle palle.>

<Io l’avrei ucciso.> borbottò Okoye e Chalmers sperò che Jody non l’avesse sentita.

Il giovane afroamericano proseguì:

<Per sua sfortuna il Commissario era uno dei pochi nel Dipartimento a non sapere che Molly von Richthofen è lesbica o non ci avrebbe nemmeno provato con lei… o forse sì, chi può dirlo? In ogni caso non sarebbe finita diversamente. Per ulteriore sfortuna il Commissario aveva dimenticato l’interfono del suo ufficio acceso. I giornalisti assiepati di fuori sentirono tutto e si affrettarono a registrarlo. Risultato: il Sindaco cacciò il Commissario a calci e nominò Arthur Stacy al suo posto, l’ex Commissario fu processato per molestie sessuali e la von Richthofen fu promossa Tenente e trasferita alla Divisione Buoncostume dove, come avete visto, non si limita a scaldare la sedia. Dicono che punti a diventare Capitano prima dei 35 anni e potrebbe farcela se con il suo caratterino non pesta troppi piedi di gente che conta.>

<Glielo auguro.> commentò Chalmers <Intanto faremo meglio a prepararci al peggio>

 “Ed a prevenirlo se è ancora possibile” pensò tra sé.

 

 

Wakanda.

 

Era il gran giorno e M’Koni si sentiva nervosa. Indossò l’attillato costume della Pantera Nera e rimase a capo scoperto riflettendo.

 Come aveva potuto pensare di affrontare una sfida del genere? Eppure, al punto in cui era arrivata era troppo tardi per tirarsi indietro, era suo dovere arrivare fino in fondo.

<Ce la farai, mamma.> le disse suo figlio Billy.

Le era arrivato alle spalle mentre lei era immersa nei suoi pensieri. Bella Pantera Nera che era. E se fosse stato un nemico? Ma non lo era e forse questo faceva la differenza.

Gli sorrise poi entrambi uscirono dai loro appartamenti e raggiunsero un ampio salone

Tutti i membri della Famiglia Reale e del Governo la stavano aspettando. C’era anche Mendinao, il capo stregone.

Senza dire una parola le porse una ciotola ricolma di un liquido dallo strano colore. La pozione ricavata dall’erba a forma di cuore che cresceva solo sul Monte Wakanda.

M’Koni la prese e ne bevve il contenuto tutto d’un fiato.

 

 

South Bronx

 

Monica Lynne si svegliò con un gran cerchio alla testa e faticò a rendersi conto di dove si trovava. Doveva avere esagerato coi drink la sera precedente perché non ricordava di essere ritornata a casa, eppure era in un letto e doveva aver dormito parecchio il sole era già alto nel cielo.

Si guardò intorno e sobbalzò emettendo un grido. C’era un uomo, afroamericano come lei, addormentato su una poltroncina vicino al letto.

Al grido l’uomo si sveglio.

<Buongiorno Monica.> la salutò con un sorriso appena accennato.

Monica lo riconobbe solo allora.

<Abe Brown?> esclamò sorpresa.

Era proprio l’uomo che aveva conosciuto al Harlem Club la sera precedente.[3] Che ci faceva lì?

Come se avesse sentito la sua domanda inespressa, lui disse:

<Ieri sera hai bevuto troppo ed io ed il barista abbiamo pensato che non fosse il caso di farti guidare fino a casa, così mi sono fatto dare le chiavi della tua auto e ti ho accompagnato fin qui. Ti sei addormentata non appena ti sei seduta in auto così, non sapendo dove abitavi, ti ho portata a casa mia.>

Monica aveva un’aria chiaramente imbarazzata.

<Tranquilla…> proseguì Abe <Non ho approfittato di te mentre dormivi. Come vedi hai ancora addosso il tuo vestito.>

<Non l’ho nemmeno pensato.> replicò lei <So che non l’avresti fatto. È che mi vergogno da morire per la figuraccia che ho fatto.>

<Tranquilla. Le brutte serate capitano a tutti e so che vieni fuori da un brutto periodo.>

“Non immagini quanto” pensò lei, poi chiese:

<Posso usare la tua doccia? Mi sento come… beh, come una che ha dormito nei suoi vestiti>

<Ma certo, nessun problema.>

Monica restò sotto la doccia finché non si sentì sufficientemente lucida, poi uscì avvolta in un asciugamano e con un altro in testa a mo’ di turbante.

Dalla cucina le giunsero un profumo invitante e la voce di Abe:

<Appena puoi raggiungimi.>

Lei non ci pensò troppo e lo raggiunse immediatamente.

<Hai preparato la colazione?> esclamò stupita.

<Si impara a fare un sacco di cose quando sei single.> replicò lui <Ora siediti e serviti.>

<Grazie, sono affamata. Ieri non ho cenato.>

Monica si sedette. Lui la raggiunse e disse:

<Non è stata una grande idea bere così tanto a stomaco vuoto.>

<Tu non puoi capire.>

<Forse no, ma potrei provarci se mi spiegassi.>

Lei esitò qualche istante e poi disse:

<Non ne vale la pena.>

Abe Brown scosse la testa e non disse altro.

 

 

Manhattan.

 

Dora Milton uscì dal centro per donne maltrattate e si recò in un vicino diner. Si accomodò ad un tavolo e stava sfogliando il menù quando davanti a lei si sedette un uomo anche lui di colore: Thomas Chalmers.

<Dora Milton eh?> disse in tono ironico.

 <Dovevo trovarmi un nome una volta qui in America e questo suonava bene.> replicò la ragazza <Non è molto diverso da quello che hai fatto tu con T. Chalmers.>

<Toccato! Non mi avevi detto di aver assunto anche tu una falsa identità americana.>

<Non me l’hai chiesto. Omoro ha fatto un lavoro eccellente coi documenti, nessuno ha sospettato che io fossi africana e men che meno wakandana. Pensano che venga da un posto chiamato Louisville nel Kentucky.>

Chalmers abbozzò un sorriso.

<E così lavoriamo entrambi per la comunità.>

<Mi hai dato tu l’idea. Non pensavo che così tante donne subissero violenza dagli uomini… dai loro uomini.>

<Benvenuta nel mondo reale Okoye. Stasera ne avrai un altro assaggio.>

<Che vuoi dire? Credi anche tu come quella poliziotta che quei bastardi tenteranno di riprendersi le donne?>

<Mi sono informato su Tiberiu Bulat: è un folle sadico che ha fatto cose tremende. Forse i suoi soci non lo farebbero ma lui è diverso, incontrollabile. Farà qualcosa, ne sono certo, ma…>

<Ma?>

<Ma si spezzerà le unghie sulle zanne di un leopardo.>

 

               

Wakanda.

 

Per un attimo M’Koni ebbe la sensazione di precipitare, poi aprì gli occhi e si trovò in piedi nel bel mezzo di una savana. In lontananza c’era un grande baobab ai cui piedi stava l’imponente figura di una pantera nera.

Una voce echeggiò nella mente di M’Koni:

“Ti aspetto, figlia.”.

M’Koni sbattè gli occhi e si ritrovo davanti a Mendinao.

<Quanto sono stata via?> chiese.

<Forse cinque secondi.> rispose Mendinao.

<Devo andare adesso.> M’Koni indicò la montagna lontana ed aggiunse <Lui mi sta aspettando.>

Mendinao assentì gravemente.

M’Koni guardò verso gli altri. Era sicura di sapere cosa stessero pensando: il caso aveva favorito la meno adatta, come poteva essere che proprio lei fosse destinata a governare il Wakanda?

Una mano si posò sulla sua spalla. Lei si voltò di scatto e si trovò di fronte suo cugino Khanata che le stava sorridendo.

“Avresti dovuto essere tu oppure Shuri” pensò la giovane donna.

<Ce la farai.> le disse lui <Io non sono tagliato per fare il sovrano, ma tu sì.>

<Grazie.> replicò M’Koni.

Sembrò esitare come se volesse aggiungere altro ma se davvero era cosi, vi rinunciò e si girò verso suo figlio.

<Ti voglio bene, Billy.> gli disse

<Anch’io a te, mamma.> replicò lui.

M’Koni lo abbracciò come se avesse paura di non rivederlo più poi si calò il cappuccio sul volto e s’incamminò verso il Monte Wakanda.

 

 

Manhattan.

 

Nel suo ufficio al Police Plaza Uno il Tenente Molly von Richthofen della Divisione Buoncostume esaminava ancora una volta il file della più grossa operazione anti sfruttamento della prostituzione forzata che fosse mai capitato alla sua divisione. Normalmente gli ufficiali come lei si limitavano a dirigere i detective ma lei non era il tipo da scaldare le sedie, le piaceva andare nel cuore dell’azione. Sapeva bene che doveva la sua promozione a due concomitanti circostanze: il precedente Commissario aveva tentato di molestarla sessualmente ed al Dipartimento faceva comodo avere una lesbica in una posizione di comando per dimostrare la sua assenza di pregiudizi, oltre che per evitare una causa ovviamente. Molly era consapevole di non essere simpatica a quasi nessuno dei detective che lavoravano con lei ma non le importava, o almeno così diceva a se stessa, finché facevano bene il loro lavoro.

Le sue riflessioni furono interrotte da qualcuno che bussava alla porta.

<Avanti!> disse.

Un agente in uniforme aprì la porta e disse:

<Abbiamo visite, Tenente.>

<Visite?> ripetè Molly perplessa.

Prima che l’agente potesse aggiungere qualcosa, una giovane donna dai lunghi capelli color biondo veneziano[4] che portava grandi occhiali rotondi ed indossava un tailleur nero entrò nella piccola stanza tendendo la mano destra verso Molly.

<Agente Speciale Donna Brandon, F.B.I.> si presentò.

Alle sue spalle spuntò un'altra donna che avrebbe quasi potuto esserne la gemella se non fosse stato che i capelli erano color biondo miele ed il tailleur era blu.

<Io sono l’Agente Speciale Katherine Carter dell’I.C.E.> disse a sua volta.

<I.C.E.?>

<Sta per Immigration and Custom Enforcement.> spiegò la nuova arrivata.

<Lo so per cosa sta.> ribattè von Richthofen <Quel che vorrei sapere è cosa c@§§o fate qui?>

<Io sono qui perché il Bureau sta indagando su un traffico di esseri umani provenienti perlopiù dall’Est Europa e non solo in cui sarebbe coinvolto Tiberiu Bulat, che è ricercato per crimini contro l’Umanità.> spiegò Donna Brandon.

<Ed io sono qui praticamente per lo stesso motivo. Far entrare illegalmente donne nel territorio nazionale e trattenerle in stato di schiavitù per farle prostituire sono crimini federali che tocca all’I.C.E. perseguire.> aggiunse Katherine Carter.

<Cos’è, una specie di scherzo? Voi due mi state prendendo in giro?> sbottò Molly.

<Non sono sicura di capire.> replicò, prudente, Donna Brandon.

<Volete rubarmi il caso, non è così?> ribattè la detective <Se i vostri superiori pensavano che affidando la cosa a due gnocche mi avrebbero trovato più malleabile, hanno fatto male i loro conti.>

<Io sono interessata solo a catturare Tiberiu Bulat.> ribattè Donna Brandon <il resto non m’interessa e sorvolerò anche sui suoi commenti inappropriati.>

<Commenti inappropriati?>

<Personalmente odio i conflitti di giurisdizione. Non potremmo collaborare?> intervenne Katherine Carter

<Uhm.> bofonchiò Molly. <La cosa non mi entusiasma ma ho scelta?>

<Temo di no.> replicò la bionda.

 

 

Wakanda.

 

M’Koni è appena sparita all’orizzonte che il Lupo Bianco disse in tono sarcastico:

<Ci siamo affidati ad una casalinga. Non ce la farà mai.>

<Io dico di sì.> replicò Khanata.

<Secondo me ti sei fatto incantare dal suo bel faccino. In effetti, la cuginetta è un bel bocconcino.>

<K’Winda, dovrei..>

<Picchiarmi? Avanti, cugino, provaci: vediamo chi di noi due è davvero il migliore.>

S’Yan si frappose tra loro ed esclamò:

<Adesso basta!>

I due cugini si guardarono in cagnesco ma abbassarono i pugni.

 Shuri era chiaramente delusa. Avrebbe voluto essere al posto di M’Koni, ma aveva perso e la cosa le rodeva.

Sua madre Ramonda provò ad abbracciarla ma lei si sottrasse e si allontanò.

Anche Jiru si allontanò senza che nessuno badasse a lui nessuno a parte N’Gassi, che con un sorriso ed un cenno del capo gli dette una sorta di benedizione tacita

Il giovane non era tranquillo. I recenti attentati lo preoccupavano e così aveva deciso di seguire M’Koni in barba alle tradizioni. Se ci fossero stati pericoli per la sua vita l’avrebbe protetta a costo della sua.

 

 

Narobia.

 

Nella capitale di questo piccolo Stato africano la sua governante, l’eccentrica Principessa Zanda, stava aggiornando la sua favolosa collezione di manufatti e oggetti d’arte provenienti da tutto il mondo.

Zanda era una vera e propria collezionista con un disturbo ossessivo compulsivo che la faceva eccedere in veri e propri atti di guerra pur di ottenere quanto da lei desiderato.

L’enorme sala in cui questi oggetti venivano accumulati era un vero e proprio museo, c’era di tutto: spade, maschere, quadri, statue, francobolli, monete, collane e articoli di questo genere, provenienti dai quattro angoli del mondo.

Un suo servitore interruppe il suo hobby.

<Mi perdoni altezza, ma c’è una videochiamata per lei.>

<Uff, proprio adesso. Chi è?> chiese, con fare scocciato.

<Ehm, si fa chiamare dottor Crocodile, signora.>

<Ho capito. Arrivo subito.>

La regina indossò la corona e il vestiario adatto per la videoconferenza, poi si recò in una sala dove, su di un ampio e sofisticato schermo, ricevette la videochiamata.

<<Zanda. Splendida come sempre ...>> disse l’uomo con galanteria.

<E come sempre molto indaffarata. Che cosa vuoi?>

<<E’ presto detto mia cara. Sono qui per farti una generosa proposta, ovvero di unirti alla mia Federazione Panafricana. In cambio di una resa pacifica posso farti ottenere una posizione di rilievo nella mia congrega. Il tutto senza inutili spargimenti di sangue né perdite di tempo per entrambi. Che mi dici?>>

<Ma sei serio?>

<<Nel modo più assoluto. Hai sentito cos’è successo al Niganda? Evita che Narobia subisca lo stesso fato. Arrenditi pacificamente e rendi la transizione più semplice possibile.>>

<Gli impianti cibernetici devono aver fatto cortocircuito e t’hanno fritto il cervello, mostro. Mi ha preso per quel sacco di letame di M’Butu? Noi non cederemo! Non riuscirai a superare le nostre difese! Disponiamo della più alta tecnologia, e non temiamo te e la tua banda di tagliagole! Avrò la tua testa al più presto. La metterò nella mia sala dei trofei!> disse minacciosamente Zanda chiudendo la videochiamata.

<Mandatemi qui il ministro della guerra!> urlò.

Dall’altra parte del continente, però, Crocodile ridacchiava, come se la cosa fosse stata prevista.

Fece immediatamente una seconda videochiamata, ma questa volta sullo schermo apparve il volto spaventoso di Bushman.

<Quanto manca all’obiettivo?> gli chiese.

<<Siamo a circa un ora dai confini di Narobia.>> rispose Bushman.

<Bene. Fa partire immediatamente l’attacco. Zanda come previsto non ha voluto ascoltarmi.>

<<Tsk. Avrei evitato persino di farle una chiamata. Le donne capiscono solo una lingua.>>

Crocodile pareva essere d’accordo con lui.

Narobia aveva le ore contate.

 

 

Manhattan.

 

Il sole era appena calato quando tre auto ed un piccolo furgone frenarono bruscamente davanti al Centro per Donne Maltrattate Maria Stark e ne scesero rapidamente degli uomini armati guidati da un uomo anziano dagli enormi baffi bianchi che gridò secchi ordini in una lingua dell’Est Europa.

“Lo ha fatto davvero, proprio come diceva il Tenente Molly von Richthofen. L’audacia di quel vecchio gangster rumeno è davvero sorprendente”, pensò l’eroe noto come Leopardo Nero apprestandosi a saltare dal tetto dove si trovava.

Una voce di donna echeggiò improvvisamente nell’auricolare incorporato nella sua maschera:

<<Questi posso ucciderli, Mio Signore?>>

<Solo se assolutamente indispensabile, Okoye.> replicò lui <Niente violenza eccessiva… e non chiamarmi Mio Signore.>

Dall’altra parte arrivò un profondo sospiro poi la donna chiamata Okoye replicò:

<<Cercherò di contenermi… Mio Signore.>>

Il Leopardo Nero ridacchiò sotto la maschera quindi saltò dal cornicione dov’era appollaiato e per qualche secondo fu in caduta libera, poi allungò le mani ed afferrò una vicina asta di bandiera. Si dette ulteriore slancio e con un’elegante capriola atterrò sui piedi proprio in mezzo ai gangster.

<Ehi è quel tizio… la Tigre Nera!> esclamò uno di loro.

<Felino sbagliato.> replicò lui sferrando un calcio alla caviglia dell’avversario più vicino.

Diversamente dall’Uomo Ragno e perfino Devil, il Leopardo Nero non sentiva la necessità di dire battute durante il combattimento, si limitava a colpire con spietata efficienza. Provarono a sparargli ma lui spiccò un salto sopra le loro teste con il risultato che due gangster si uccisero a vicenda ed un altro si accasciò ferito.

Non provava piacere nel prendere una vita umana e preferiva evitarlo finché era possibile ma non provava nemmeno alcun rimpianto o pietà per la sorte di uomini che si arricchivano sulle miserie degli indifesi.

Piombò di nuovo in mezzo a quelli rimasti in piedi e con poche mosse li sistemò uno dopo l’altro poi si guardò intorno. Il portone era spalancato: gli altri, guidati da Tiberiu Bulat, erano entrati. Si sarebbero trovati di fronte Okoye: li compianse.

 

 

All’interno dell’edificio.

 

Si muovevano con rapidità ed efficienza, più come un commando paramilitare che come una banda di criminali ed in effetti erano quasi tutti reduci di guerre che l’opinione pubblica preferiva dimenticare.

Avrebbero dovuto essere sorpresi della quasi totale assenza di guardie armate ma erano fin troppo confidenti in loro stessi.

“Gli americani sono stupidi” si disse Bulat. “Hanno sicuramente pensato che nessuno avrebbe mai assalito un posto del genere in pieno centro di Manhattan, idioti.”

C’era un uomo in uniforme proprio davanti ad una porta chiusa. Due colpi al petto e fu sistemato. Tiberiu Bulat passò oltre il suo corpo steso a terra ed aprì la porta. C’erano tre ragazze all’interno. Una aveva i capelli biondi e vestiva un abito rosso.

Si voltò di scatto impugnando una pistola Sig Sauer calibro 9 ed intimò:

<Tiberiu Bulat, in nome della legge sei in arresto!>

Il vecchio esitò solo un istante poi fece fuoco ordinando ai suoi:

<Uccidete quella troia e le sue amiche!>

<Che linguaggio disdicevole per un caro vecchietto.> replicò la ragazza in questione mentre si gettava a terra sparando.

Le altre donne, una rossa e una bionda dai capelli più scuri e lunghi della precedente, la imitarono scatenando un violento conflitto a fuoco.

<È una trappola!> esclamò uno dei gangster.

<Siete davvero svegli.> commentò la prima donna rotolando sul pavimento e continuando a sparare <Magari avete anche capito che non ci siamo solo noi tre.>

Come a sottolineare le sue parole, la guardia che era stata abbattuta poco prima si mosse ed impugnata la pistola cominciò a sparare a sua volta.

Presi tra due fuochi i gangster non ci misero molto a capire che era meglio battere in ritirata ma quelli che riuscirono a sganciarsi dalla sparatoria si trovarono di fronte una giovane donna di colore che indossava un abitino aderente rosso, portava sul viso una mascherina nera, una faretra piena di frecce sulle spalle, un arco a tracolla ed impugnava una lunga lancia.

<E questa chi è?> si chiese uno degli uomini.

<Sono Okoye.> replicò lei con colma<E vi do una sola opportunità di arrendervi prima di uccidervi tutti.>

<Fate fuori questa negra!>- intimò Bulat.

Okoye socchiuse gli occhi e sollevò la sua lancia.

 

 

Narobia.

 

Le difese di Narobia non si aspettavano un così massiccio attacco. Erano state colte di sorpresa.

D’altronde, quando erano state messe in allarme gli invasori erano quasi alle porte del paese.

Narobia possedeva tecnologia avanzata ma il proprio esercito non era assolutamente all’altezza del sanguinario gruppo di commandos agli ordini di Bushman.

Oltre a lui e alla spietata Malizia, in testa alle proprio armate gli invasori potevano contare sulla pericolosa donna nota come Ohyaku.

Le forza locali non poterono che cedere sotto il loro assalto e, come successo solo pochi giorni prima al Niganda, la capitale cadde in poche ore.

Quando però Bushman abbattè le porte del palazzo reale, di Zanda non vi era traccia: la principessa disponeva di un jet supersonico con il quale era riuscita a mettersi in salvo.

<Qui Bushman. Quella puttana è riuscita a fuggire.> disse, comunicando, grazie al suo telefono satellitare, con Crocodile.

<<Avevo previsto anche questo. Zanda è presuntuosa, ma non è una sciocca.>>

<Sarà sicuramente andata ad avvisare i wakandani.> lo avvertì Bushman.

<<Ed è esattamente quello che volevo, mio caro amico. I nostri piani non potevano comunque restare segreti troppo a lungo. Non temo il Wakanda... sono deboli, in questo momento. Non c’è più neppure una Pantera Nera a proteggerli. Cadranno come sono caduti gli altri stati.>> disse, con assoluta certezza e mal celato entusiasmo.

 

 

Wakanda.

 

M’Koni si stava arrampicando sul Monte Wakanda ed era ormai vicina a raggiungere la zona proibita chiunque non dovesse sostenere la prova finale per essere la nuova Pantera Nera.

Mendinao le aveva spiegato cosa avrebbe dovuto fare una volta arrivata lì ma non cosa sarebbe accaduto dopo. Solo lei l’avrebbe saputo e solo il dio Pantera sapeva se sarebbe tornata per poterlo raccontare. Se non fosse stata giudicata degna non avrebbe mai lasciato quel luogo.

Con un ultimo pensiero a suo figlio terminò la scalata.

 

 

Non molto distante.

 

Qualcuno stava osservando M’Koni. Sul suo viso un’espressione di pura malvagità rendeva abbastanza evidente che non avesse buone intenzioni.

 

 

Manhattan.

 

Il sottile rumore di un percussore che scattava, una lancia che si muoveva velocissima trafiggendo la mano di un uomo facendogli cadere di mano una pistola che aveva sparato a vuoto. L’uomo urlò ancora più forte quando Okoye ritirò la lancia la cui punta tranciò spietatamente carne, tendini e nervi.

<Vi avevo avvertito.> disse semplicemente l’ex Dora Milaje.

Si muoveva con la grazia di una ballerina mulinando la sua arma e colpendo gli avversari con il piatto della lama abbattendoli uno dopo l’altro senza che loro riuscissero a colpirla.

Tiberiu Bulat era indeciso se provare a spararle o scappare quando la decisione gli venne strappata letteralmente di mano: il Leopardo Nero arrivò sulla scena, gli afferrò il polso e glielo torse.

<È finita, Bulat.> disse.

<Non prima di averti ammazzato!> ribattè il vecchio.

Estrasse un coltello con la mano sinistra e cercò di infilarlo nell’addome del suo avversario che fece un sospiro e mormorò:

<Idiota.>

Un attimo dopo Tiberiu Bulat si ritrovò a terra senza nemmeno capire come e quando alzò la testa le forze dell’ordine stavano già facendo irruzione nell’edificio. Le tre donne armate con cui i gangster si erano scontrati poco prima si fermarono accanto al Leopardo Nero.

<Grazie.> gli disse la bionda in abito rosso <Ora tocca a noi.>

Puntò la pistola contro il viso di Bulat e disse:

<Tiberiu Bulat, sono l’Agente Speciale Katherine Carter dell’I.C.E. e ti dichiaro in arresto per aver violato una tonnellata di leggi sull’immigrazione più svariate altre di cui ti informeranno le mie colleghe. Fai una mossa falsa e ti faccio saltare la testa.>

Bulat sputò e replicò:

<Lurida p…>

La donna premette con forza il tacco della sua scarpa sinistra contro il palmo della mano destra del rumeno strappandogli un grido e ribattè:

<Hai il diritto di restare in silenzio e ti consiglio di esercitarlo o potrebbe venirmi la tentazione di spararti comunque.>

La lettura dei diritti a Bulat ed ai suoi uomini sopravvissuti proseguì mentre venivano ammanettati per poi essere portati via. In quel momento arrivò la guardia giurata che sembrava essere stata uccisa dagli incursori e che poi si era rivelata essere ben viva.

<Tutto a posto Detective Ortega?> chiese l’altra agente bionda, che sfoggiava un distintivo del F.B.I. appeso al collo, aggiustandosi un paio di occhiali sul naso.

<Forse ho un paio di costole rotte e di certo il petto mi fa un male cane ma il giubbotto antiproiettile ha retto ai colpi.> rispose il giovane detective del NYPD sforzandosi di sorridere.

<Non sarebbe servito a molto se avessero mirato alla testa.> commentò, acida, la terza donna: capelli rossi, occhiali a specchio che nascondevano gli occhi e volto spigoloso.

<Bisogna pur correre qualche rischio in questo lavoro, Tenente von Richthofen.> replicò il Detective <Con un cognome come il suo dovrebbe sapere cos’è l’audacia.>

<Apprezzo l’impertinenza solo quando viene da me, Ortega.>

<Ricevuto, Signora.>

<Ehi, dov’è finito quel Leopardo Nero?> esclamò l’Agente del F.B.I. <Mi sono voltata un attimo e lui e quell’altra tizia sono spariti.>

<Lui e la sua amichetta se la sono filata senza salutare come fanno sempre quelli come loro, Agente Brandon.> replicò Katherine Carter.

L’Agente Speciale del F.B.I. Donna Brandon scrollò il capo e l’altra proseguì:

<La notte è ancora giovane, che ne direste se andassimo a farci una birra e raccontarci le nostre avventure?>

<Che è un’ottima idea.> ribatte Molly von Richthofen con un sogghigno.

 

 

Harlem.

 

L’uomo che si faceva chiamare Leopardo Nero saltò di tetto in tetto sino a raggiungere una palazzina nel cuore di Harlem. Appollaiato con disinvoltura su un cornicione aprì senza difficoltà una finestra ed entrò in una stanza da letto arredata spartanamente. Qui si sfilò la maschera rivelando il volto di un uomo di colore tra i trenta ed i quarant’anni dalla testa rasata ed il volto incorniciato da corti baffi ed una barba appena accennata.

Quasi subito dopo dalla finestra entrò anche la donna chiamata Okoye.

<Questa storia della giustiziera mascherata è davvero divertente.> disse in lingua wakandana togliendosi la mascherina domino che portava sul viso.

<Davvero?> ribattè nella stessa lingua, con un sorrisetto, l’uomo che si faceva chiamare Thomas Chalmers <E ti diverte anche essere Dora Milton, impiegata del Centro Donne Maltrattate?>

Okoye riflettè qualche istante poi rispose:

<Al principio no, era solo un mascheramento per tenere d’occhio la situazione di quelle donne che abbiamo liberato qualche sera fa, ma ora… sì mi piace quello che faccio lì, anche se è frustrante vedere e sentire certe cose sapendo che non posso risolvere tutto con una freccia o un colpo di lancia.>

<Benvenuta nella realtà. Qui le cose sono più complicate che nel Wakanda e le regole sono diverse.>

<E tu sei venuto qui. Hai lasciato il trono, quasi tutti ti credono morto. Avresti potuto andare dovunque nel mondo, fare qualunque cosa volessi ed invece sei venuto in questa città, in questo quartiere con un’identità fittizia, lavorando come assistente sociale per uno stipendio che è solo una minima frazione delle ricchezze a cui hai rinunciato.>

<Non ne avevo davvero bisogno mentre mi serviva stare in contatto con la gente ed i suoi veri problemi. T’Challa è morto ma Thomas Chalmers ha molto da fare >

<Quando ti ho seguito sin qui, ho pensato che fosse perché c’era lei ma da quando sei arrivato non hai nemmeno provato a cercarla.>

<Monica? Meglio che si rifaccia una vita lontano da me.>

Okoye fece una smorfia poco convinta e replicò:

<E per te vale lo stesso, Mio Sig…T’Challa? Non vuoi un’altra compagna?>

 Si avvicinò a T’Challa e contemporaneamente si sfilò il vestito lasciandolo cadere a terra.

<Okoye… non mi sembra una buona idea.> disse lui

<Non dire cose che si vede che non pensi e lasciati andare.>

Gli gettò le braccia al collo e lo baciò Dopo un momento di esitazione lui rispose al bacio e la strinse a sé.

 

 

CONTINUA

 

 

NOTE DEGLI AUTORI

 

 

            Finisce qui la rinarrazione riveduta e corretta di eventi già narrati nella serie Marvel Knights ad opera di Carlo Monni con in più sequenze interamente nuove.

Ma ora, spazio alle note:

1)    La Principessa Zanda e lo Stato di Narobia sono stati creati da Jack Kirby su Black Panther Vol. 1° #1 datato gennaio 1977.

2)    Molly Von Richthofen è stata ideata da Garth Ennis & Steve Dillon su Punisher Vol. 4° #4 datato luglio 2000. Mi scuso sin d’ora se non saprò renderle adeguata giustizia.

3)    L’Agente del F.B.I. Donna Brandon è una mia creazione originale.

4)    L’Agente dell’I.C.E.. Katherine Carter, invece… beh, diciamo che è un personaggio molto vecchio di cui nessuno di voi probabilmente nemmeno conosce l’esistenza ed è qui utilizzato in un modo del tutto insolito. Prima che me lo chiediate: no, non è imparentata con Sharon Carter… almeno a quanto se ne sa. -_^

5)    Il Detective Ismael Ortega è stato creato da David Hine & David Yardin su District X #1 datato luglio 2004.

6)     Ohyaku è stata create da Jonathan Maberry & Will Conrad su Black Panther Vol. 5 #8 datato novembre 2009

Nel prossimo episodio: continua lo scontro tra il Leopardo Nero e Vlad l’Impalatore, M’Koni affronta il suo destino sul Monte Wakanda e molto di più.

 

 

Carlo & Carmelo



[1] Manfred von Richthofen asso della Prima Guerra Mondiale.

[2] Polizia segreta rumena del regime di Nicolae Ceausescu.

[3] Ovvero nell’ultimo episodio.

[4] Tonalità di biondo tendente al rosso.